A proposito di: "Tradizionale"
Eventskarate 13 novembre 2010
A cura di M° Ferdinando Balzarro
Il maestro Ferdinando Balzarro in questo testo ripercorre il significato del
termine “Tradizionale” nelle arti marziali e in particolare nel karate,
indagando la sua origine e analizzando le mutazioni subite nel corso degli anni
e dei millenni, fino ad arrivare alla moderna concezione.
Il brano è un estratto del suo
ultimo libro “Il BENE…IL MALE…PENSIERI DI UN MAESTRO” nelle librerie a partire
dalla fine di dicembre.
Capire il nostro passato può forse dissipare la nebbia di cui è avvolto il
presente? Come possiamo penetrare anni, secoli di alterazioni storiche e
mistificazioni opportunistiche, per risalire alla verità originale? Come
setacciamo i fatti di allora per separare la pula dei falsi miti dal biondo
grano della più credibile attualità? Come possiamo capire la nostra vicenda
culturale così da sapere chi eravamo e quindi chi siamo ora?
Per quanto mi riguarda avevo sempre creduto (anzi ne ero convinto) che quello
direttamente portato in Italia nel 1964 dal M. Hiroshi Shirai (neo campione del
Giappone nel kumite e nel kata Shotokan targato J.K.A.) fosse karate made Japan
e, in quanto tale, a tutti gli effetti quello tradizionale. A distanza di poco
meno di mezzo secolo, mi tocca prendere atto che una corrente interna alla
Federazione da egli stesso fondata verso la fine degli anni ottanta: la super
ortodossa FIKTA (Federazione italiana karate tradizionale e affini), mette in
dubbio che lo Shotokan già proposto dal grande Maestro possa considerarsi
“Tradizionale”, bensì una sorta di eccellente “studio evolutivo” da egli stesso
“firmato”. Intanto, lo Shotokan autenticamente fedele alla tradizione sarebbe
quello (e solo quello) praticato dalla J.K.A di Tokio. E’ ovvio che mi guarderò
bene dall’entrare nel merito della faccenda salvo, a questo punto, poter
affermare di averne viste e sentite veramente tante in questo stravagante mondo
marziale. Ciò che invece mi preme fortemente (prendendo spunto da tale curiosa
vicenda) è riuscire a ragionare con voi su chi (singolo Maestro o Federazione o
associazione o gruppo che dir si voglia), e soprattutto in base a quale
parametro “universale”, possa arrogarsi il diritto di dichiarare: ebbene sì, io
e solo io, sto praticando l’unico vero del tutto originale “Tradizionale”.
Forse, per mantenermi fedele a una certa linea storica, programmando una specie
di viaggio immaginario sia dal punto di vista geografico sia temporale, dovrei
recarmi a Tokio e studiare presso la “rinomata” JKA (per la verità oggi molto
meno rinomata da quando, morto l’istruttore capo Masatoshi Nakayma, una
shakespeariana lotta per la sua successione ha man mano visto dimettersi
personaggi della caratura del M. Kase, dello stesso M. Shirai, nonché
precedentemente i Maestri Kanazawa e Enoeda). Ma, inquietato da ulteriori dubbi,
sempre per coerenza di ricerca del “sacro” karate tradizionale, mi sbrigo a
prendere il primo virtuale aereo diretto a Okinawa (indiscussa culla del karate,
a prescindere dagli stili), ma proprio lì, su quella venerabile terra, mi tocca
assistere a forme stilistiche piuttosto rudimentali, un po’ grezze, certamente
arcaiche, difficilmente riconoscibili e perciò riconducibili a quelle oggi
praticate nel resto del mondo. Inoltre proprio adesso mi sovviene che, tra
Gichin Funakoshi e il figlio “ribelle” Yoshitaka, si aprì una vera e propria
voragine riguardo il modo di concepire e condurre gli allenamenti, la durezza
degli stessi, i calci altissimi, le posizioni esageratamente basse e forzate,
perlopiù antifisiologiche e dannose ad articolazioni e legamenti e, soprattutto,
l’idea “distorta” del combattimento intesa da Yoshitaka, assolutamente
inconcepibile e inaccettabile dall’etica morale di Funakoshi padre. Ecco che
allora mi tocca tornare indietro di corsa, in quanto pienamente consapevole che
lo Shotokan oggi praticato è quello voluto dal figlio, non quello del padre.
Perbacco! Sono al punto di partenza! Così, sfogliando qualche autorevole manuale
sulla breve storia del karate “moderno” (1800/2010), apprendo che perfino il
karate di Gichin Funakoshi aveva già subito frequenti sostanziali tagli. Infatti
il di lui diretto e assai stimato insegnante, il M. Itosu, ebbe la scellerata
idea di scompigliare il kata di base, il più importante per quei tempi, il
misterioso Naifanchi, e (allo scopo di introdurre il karate nelle scuole
eliminando con cura tutta le tecniche considerate troppo pericolose o
inopportunamente violente) ridurlo in tre forme semplificate e distinte tra
loro, ottenendo il tragico imperdonabile risultato di far smarrire in breve
tempo ogni traccia dell’originale.
A questo punto, vagamente smarrito e perplesso ma giammai domo,
comprendo che non mi resta che provare a immergermi nei plumbei abissi della
storia, quella “antica”, quella che precede l’era “moderna”, era di cui io
stesso faccio parte. E quando si dice “plumbei” non si creda di esagerare.
Infatti nulla è sicuro, nulla è documentato, ognuno racconta e tramanda
oralmente la propria versione dei fatti. La stessa favoletta sempre intrisa dai
medesimi ingredienti, ma comunque smaccatamente viziata dai personali finalismi
di questo o quel capo scuola (o capo stile se più vi piace) ognuno dei quali
pronto a rivendicare diritti d’autore sullo stile praticato. Comincio a
realizzare che, essendo stata l’isola rurale di Okinawa per non meno di sei
secoli pacifica colonia del Grande Impero, a questo punto mi conviene mettermi a
spulciare tra i documenti storici e “preistorici” della super ordinata e super
organizzata Cina. Perbacco, perbacco! Leggi che ti leggi, studia che ti studia,
ne saltano fuori delle belle. Altro che Okinawa, qui siamo finiti nel 500 d.C.
dritti dritti sul monte Song, più precisamente dentro una grotta un centinaio di
metri al di sopra del mitico tempio di Shaolin. Tempio che dopo nove anni di
meditazione, il reverendo Bodhidharma scelse quale sua residenza e… ecco, ecco
ci siamo! Proprio lì, proprio tra quelle austere mura, il grande patriarca creò
e insegnò ai (pochissimi) monaci presenti nell’eremo, il Kung-fu Shaolin, madre
(o padre) di tutte le arti marziali. Ah finalmente! Finalmente ci sono arrivato.
Finalmente ho capito dove è nato il vero “tradizionale”.
Ma, mentre sono ancora a compiacermi per aver individuato la fonte di tutte le
fonti, eccomi di nuovo attanagliato da un terribile ulteriore interrogativo. Il
reverendo Bodhidharma, da chi, a sua volta, ebbe appreso le micidiali tecniche
del combattimento a mani nude? A quali formidabili occulti Maestri si era così
finemente ispirato? Accidenti! E’ proprio così. E’ fatto documentato e
inconfutabile che il reverendo si servì del regno animale per dar vita al suo
stile. Stile talmente perfetto e potente da attraversare i secoli. Per ore e ore
e giorni e giorni e anni e anni, egli osservò la mimica delle scimmie… Per ore e
ore e giorni e giorni e anni e anni, le spiava mentre si muovevano, mentre si
rilassavano, voleva vedere come attaccavano, come si proteggevano. Poi osservò
il serpente, si fissò sulla tigre, e la gru bianca, e la mantide religiosa, e la
pantera, e (ma forse solo in sogno) infine il drago… Allora sono loro… sono loro
mi son detto! Sono gli animali, sono le scimmie, le tigri, i serpenti, le gru,
le cavallette, le pantere, i nostri favolosi Maestri. Sono gli animali i veri
detentori dell’autentico unico incontaminato “Tradizionale”.
Be’, dopo aver un po’ amaramente scherzato sull’argomento che da illo tempore
agita i cuori di praticanti e maestri, mi accingo a rivelarvi il mio modesto
parere sull’annosa questione. Il karate (come tutte le arti marziali) ha perso
la sua “verginità tradizionale”, la sua rigorosa ortodossia, dal primo istante
in cui fu costretto a “sposarsi” allo sport, dal primo istante che fu costretto
a unirsi carnalmente alla competizione con i suoi regolamenti, i campionati
mondiali, le medaglie, le suntuose coppe, trionfi, sponsor, febbrili ambizioni
olimpiche e via dicendo. Non fu certo matrimonio d’amore. Infatti, da quel
preciso momento, tutto è sfuggito dalle mani anche dei più convinti e fedeli
conservatori e custodi della tradizione. Ciò che non era nato per divenire
sport, bensì per seguire la lunga “via” della perfezione e del virtuoso elevarsi
dello spirito, veniva forzatamente e innaturalmente gettato nelle perverse
spesso incomprensibili dinamiche delle gare sportive, in balia di ottusi
regolamenti, fallibili giudici di gara, squallidi interessi nazionalistici, e
mediocri caste dirigenziali. Praticamente senza accorgersene, il suffisso
Do scivola via
e cede il proprio esiguo spazio a un'altra altezzosa e ben più invasiva parola:
Sportivo.
Ecco quindi avverarsi in tempi brevissimi il funesto temuto passaggio dal
Karate-do
al Karate-sport.
E allora? Allora addio “Tradizionale”! Addio sani millenari principi… addio
anziani saggi Maestri dallo sguardo fermo e l’irreprensibile stile di vita.
Lo “Sport”, quello dell’agonismo esasperato e precoce, quello che non c’è tempo
da perdere, quello che se non sei un “talento” è meglio che smetti, quello dalla
foga di vincere a tutti i costi, quello del doping a piene mani, quello
miliardario e venale, proprio lui, ha conseguito il decisivo trionfo finale.
Karate-Do …
addio… Karate-Do…
addio per sempre.
M° Ferdinando
Balzarro
Tratto da “IL BENE… IL MALE… PENSIERI DI UN MAESTRO”, di Ferdinando Balzarro, nelle librerie a fine dicembre.