Breve storia del termine karate:
tra tradizione e innovazione
di Fabrizio Comparelli
Ogni praticante di karate sa come il nome dell’arte da lui praticata significhi fondamentalmente ‘mano nuda/vuota’. Il termine kara, tradotto con nuda/vuota, andrebbe inoltre inteso in un doppio senso: il primo, che si potrebbe definire ‘pratico’, qualificherebbe il karate come arte marziale praticata senza l’ausilio di armi; il secondo, che potrebbe definirsi ‘spirituale’, intenderebbe il fine ultimo della pratica del karate, ossia il raggiungimento della consapevolezza buddista della vacuità del mondo quale esso ci appare (il mondo fenomenico della filosofia).
È mia intenzione cercare di esemplificare quanto più chiaramente possibile il percorso che ha condotto alcuni grandi maestri, Funakoshi sensei in primis anche se non il primo in senso assoluto, a stabilire la grafia attuale del termine karate (fondamentalmente nel periodo che va dal 1930 ai prodromi della seconda Guerra Mondiale): si ricordi che questa grafia non è che l’anello conclusivo di una catena di tentativi più o meno riusciti, rivolti ad inquadrare un’arte non meglio specificamente identificata anche nella sua patria di origine: l’isola di Okinawa.
Va subito detto che la storia dell’evoluzione del termine karate si intreccia non solo con il senso estetico o con la necessità di identificazione specifica di un’arte ormai anche in Giappone divenuta di dominio pubblico, ma con vere e proprie istanze nazionalistiche e di ideologie politico-militari allora dominanti in Giappone. Come per le biografie di quei maestri che erano stati i maestri di Funakoshi (almeno i più importanti: Matsumura, Azato e Itosu), anche per quanto riguarda la grafia del termine karate ad Okinawa prima del 1900, ci si deve affidare a congetture basandosi per lo più sui ricordi orali tramandati da questi maestri. Obbligatorio è iniziare con quanto riferisce Funakoshi, il maggiore responsabile, benché non unico, dell’innovazione nella grafia del termine karate e dell’interpretazione ‘mano nuda/vuota’. Questi ci conferma almeno due cose: ad Okinawa non esisteva alcun documento scritto che riportasse il termine karate (nel senso ‘mano nuda’), ed inoltre questa arte marziale poteva essere indicata con modi diversi, tutti però indicanti la madre-patria culturale, sia del karate sia di Okinawa stessa: la Cina. Com’è noto, una delle insidie della lingua Giapponese è l’omofonia delle parole, ossia parole indicate da kanji diversi si pronunciano con un identico suono. Per capire quale sia il significato corretto di un suono, un giapponese deve basarsi sul contesto della frase o vedere necessariamente il kanji in questione. Karate è un tipico esempio di questa ambiguità. La seconda parola del termine non pone alcuna difficoltà: te vuol dire ‘mano’; ma kara è un termine più insidioso, infatti per lo stesso suono esistono due kanji: uno che indica il ‘nudo/vuoto’, ed un altro che indica il carattere cinese attribuito alla dinastia Tang, e per estensione quindi la Cina stessa (karate sarebbe dunque ‘mano cinese’ o ‘arte cinese’, con oscillazione di letture ‘kara’/ ‘to’, per cui anche tote era uno dei modi più frequenti di indicare il karate). Per di più, ad Okinawa il termine karate non doveva essere quello prevalente. I maestri chiamavano l’arte semplicemente te o bushi no te, ‘mano di guerriero’. Anche Funakoshi non è in grado di dire quando comparve per la prima volta l’uso di chiamare karate il te okinawense, tanto più non è in grado di dirci se il kanji utilizzato fosse quello di ‘vuoto/nudo’ o quello che indicava la Cina. Eppure, nonostante la calcolata prudenza di Funakoshi (che scrive quando ormai si trova in Giappone, il che non è privo di importanza, come si vedrà), possiamo con fiduciosa certezza affermare che il kanji non poteva essere altro che quello indicante la Cina. Del resto, gli antichissimi kata che portano i nomi cinesi di Kushanku (Kosukan-dai, Kanku-dai) e Wanshu
(Empi), testimoniano l’antica influenza che la Cina ebbe nei confronti delle tecniche autoctone di combattimento okinawense chiamate genericamente te.
Wanshu sarebbe il kata più antico di tutti: risalirebbe al 1683, anno in cui l’uomo che portava questo nome lo insegnò intorno all’area Tomari, dove rimase confinato fino al 1871, anno in cui il kata passò anche nell’area shuri, ad Itosu e poi nel karate giapponese.
Shoshin Nagamine colloca l’arrivo di Kushanku ad Okinawa nel 1761: in quest’epoca avrebbe dato una dimostrazione della sua abilità marziale e tramandato il kata che ancora oggi porta il suo nome, pur con le eccezionali varianti tra scuola e scuola intervenute nel corso di questi secoli. Ma ad Okinawa il karate veniva anche chiamato Okinawa-te o to-de, ‘mano cinese’, dove il termine to in giapponese può anche essere pronunciato kara.
Se è vero dunque che, grosso modo, il karate è il frutto dell’evoluzione del te okinawense unitamente agli importantissimi influssi del to-de cinese, era certamente impossibile che con karate si intendesse altro da ‘mano cinese’.
Salvo ulteriori acquisizioni, pare che il primo ad utilizzare il kanji giapponese indicante ‘vuoto/nudo’ fu Hanashiro Chomo, il quale con Kentsu Yabu era stato uno degli eroi di Okinawa nella guerra contro la Cina. Hanashiro era stato uno dei pochi indigeni ad essere arruolato nelle truppe okinawensi, e poteva essere stato quindi influenzato dall’ideologia militare nipponica fortemente nazionalistica, che mirava a screditare e svalutare tutto ciò che era cinese. Ma si trattava probabilmente di un caso isolato che non ebbe alcun seguito, poiché i maestri anziani non erano partiti per la guerra, e la Cina continuava per loro ad essere l’antica madre patria culturale, benché ormai Okinawa fosse divenuta una provincia Giapponese.
Le cose dovettero tuttavia cambiare, e di molto, quando Funakoshi fu invitato dal maestro Kano in Giappone a diffondere la sua arte. Il maestro okinawense dunque si trasferì dall’isoletta natale a Tokio. L’insegnamento del karate, nonostante l’arretratezza propedeutica e metodologica rispetto ad altre arte marziali come il judo e il kendo, ormai già popolari e utilizzate a fini militari anche in tornei organizzati, suscitò un notevole interesse. Si impose allora per Funakoshi il problema della nomenclatura, non solo del termine karate (che sapeva troppo di Cina per essere culturalmente accettato dal nazionalistico Giappone) ma anche dei nomi dei kata, tutti foneticamente cinesi. Funakoshi giustamente notava come il karate okinawense praticato nella sua gioventù era già qualcosa di profondamente diverso dal kung fu cinese dal quale derivava. Inoltre la semplificazione avvenuta in Giappone per esigenze didattiche, fece giustificare la ricerca di una terminologia alternativa. Tuttavia il processo di giapponesizzazione non fu immediato. Nel 1922 Funakoshi pubblicava un libro intitolato Ryukyu kenpo karate (‘il karate: pugilato di Ryukyu’), seguito nel 1924 da un’altra pubblicazione intitolata Rentan goshin karate jutsu (‘l’arte del karate: rafforzamento energetico ed autodifesa’).
Gli ideogrammi sono ancora quelli che indicano la Cina.
Quando ormai il karate si era sviluppato all’interno delle Università giapponesi, Funakoshi propose la seguente denominazione: Dai Nippon Kenpo karate-do, ossia ‘la via del Grande Metodo di pugilato giapponese a mani nude’, utilizzando finalmente l’ideogramma ‘nudo/vuoto’. I Giapponesi potevano essere soddisfatti. Non solo le origini cinesi, ma anche quelle okinawensi, comunque troppo ‘paesane’, erano cancellate. Ma ad Okinawa nessuno era soddisfatto della scelta operata da Funakoshi. Tuttavia per raggiungere la popolarità ed allargare la conoscenza del karate nella madre patria giapponese, il cambiamento era necessario, i tempi lo imponevano: la guerra con la Cina era archiviata, ma gli scenari internazionali erano torbidi, la seconda Guerra Mondiale sarebbe scoppiata di lì a poco, e al Giappone serviva una arte marziale efficace e completamente integrata nel suo sistema ideologico. Il karate era divenuto ‘mano nuda/vuota’. Funakoshi però non era uno sprovveduto, né un uomo di bassa levatura morale. I suoi maestri erano stati grandi maestri,
e gli avevano insegnato che il karate non era solo una forma di jutsu di tecnica pura e semplice, ma una sorta di do, confucianemente intesa come via per il miglioramento di se stessi. Funakoshi lo sapeva e per meglio giustificare la sua operazione culturale, attirò l’attenzione su alcune scritture del buddismo zen dove compariva proprio il termine kara ‘vuoto’, indicando il percorso seguito dallo studente zen che mira a liberarsi dalle sovrastrutture ideologiche e mentali per raggiungere alla fine il vuoto, o assenza di pulsioni. Questa doppia innovazione, la sostituzione del kanji kara e l’introduzione del concetto filosofico di do irritarono non pochi rappresentanti del karate okinawense. In primo luogo, a Okinawa l’uso delle armi non era affatto estraneo al karate, anzi i due insegnamenti andavano spesso di pari passo. Il termine ‘mani nude’ quindi non rendeva ragione della vera pratica del karate okinawense. Ma Funakoshi riuscì ad ottenere l’approvazione dei suoi connazionali motivando la sua scelta anche con l’introduzione del concetto filosofico di kara come ‘vacuità’. Eppure il karate okinawense non aveva niente a che vedere né col buddismo né con lo zen, filosofie che al quel tempo non erano seguite ad Okinawa, infatti Funakoshi non insistette mai troppo su queste astrazioni filosofiche troppo monastiche, quasi ‘iniziatiche’, del suo karate (a differenza di tanti santoni e creduloni occidentali). Per Funakoshi la ‘vacuità’ era anche un arma: «lo studente di karate-do deve rendere la sua mente vuota di personalismo o cattiveria, nello sforzo di reagire in maniera opportuna verso qualunque cosa possa trovarsi davanti». Inoltre la tendenza volta a trasformare il karate da jutsu a do (o meglio a shugyo: un concetto indicante un’austera disciplina mirata al miglioramento fisico e spirituale dell’uomo), era in nuce già praticata dai maestri okinawensi della generazione precedente quella di Funakoshi, soprattutto da Itosu, Azato e Higaonna.
Nel 1935 Funakoshi scrive il suo testo più importante Karate do kyohan, ‘testo di insegnamento del karate-do’. Il karate okinawense rimarrà ancora a lungo confinato in patria, mentre quello di Funakoshi, lo Shito-ryu di Mabuni, il Wado-ryu di Otsuka (l’unico giapponese tra i fondatori di stili: per ironia del destino sarà anche l’unico a mantenere i nomi originali cinesi dei kata!), il Goju-ryu di Miyagi, faranno il giro del mondo e faranno conoscere il karate giapponese, la ‘mano nuda/vuota’.
Anche nel libro a due mani Mabuni-Nakasone [allievo di Kanken Toyama, allievo di Itosu-Yabu] (Kobo-Kempo Karate-do, 1938, trad, spagn. 2002p. 25) gli autori si sforzano di dimostrare come il fatto che il termine kara indicasse la Cina non è importante. Importante è invece che gli Okinawensi fossero in tutto Giapponesi, per cui il kempo di Okinawa sarebbe la forma specifica del kempo giapponese praticato ad Okinawa. Presentare il kempo okinawense come kempo cinese è un errore, e infatti le due forme sono molto differenti. Il kempo cinese avrebbe solamente influito sul kempo autonomo, senza esserne parte preponderante. Secondo Mabuni-Nakasone, anche il ju-jitsu risentirebbe dell’influsso del kempo cinese, che in Giappone si sarebbe evoluto nel ju-jitsu classico e poi confluito nel judo, ad Okinawa avrebbe aiutato lo sviluppo del karate. In conclusione, quando si iniziò a parlare di karate (ossia quando l’arte venne introdotto nelle scuole agli inizi del 900), fu un deplorevole errore quello di utilizzare il kanji kara nel senso di Cina. Il nome più appropriato sarebbe bushi-no-te (pugno del guerriero/strategia del guerriero), ma dal momento che ormai è impossibile cambiare, meglio di tutti il karate ‘mano-nuda’.
L’argomentazione è speciosa, e non tiene conto di quello che, grazie agli studi successivi, si è dimostrato sempre più evidente, ossia che i kata di karate, almeno quelli fondamentali e comunemente ritenuti i più antichi, di entrambe le aree, sono cinesi, nel nome e nella leggenda della loro origine. Che poi siano stati profondamente rielaborati dai maestri okinawensi tanto da diventare irriconoscibili rispetto alle forme originarie cinesi (nell’impossibilità di un confronto diretto coi kata praticati ad Okinawa nell’Ottocento, saremmo tentati di dire che il processo è stato quello della semplificazione), sarà da imputare non solo all’iniziativa personale dei singoli maestri, ma da vere e proprie semplificazioni e fraintendimenti, ingenerati fra l’altro dalla diversissima mentalità che contraddistingueva i cinesi (mistici), e gli okinawensi (più pragmatici) II l’evoluzione dei kata.
Le motivazioni apportatrici di tali cambiamenti sono molteplici. Le due fondamentali, a mio parere, sono fondamentalmente le seguenti. Come espressione di movimenti, il karate si evolve (e si deve evolvere!) di pari passo con l’evoluzione della medicina sportiva e della scienza cinesiologica; del resto, tutte le attività fisiche migliorano di anno in anno i loro modelli di prestazione, e nessuno ha mai trovato nulla da ridire a riguardo. Si potrebbe obiettare che si pensi solo all’agonismo.
Non è vero. La scienza dello sport ha il compito di preoccuparsi dell’attività motoria ad ogni età (ed è una conquista comunque relativamente recente), dal bambino alla persona anziana. Ogni maestro si dovrebbe preoccupare della prosecuzione della pratica lungo lo sviluppo della vita di un uomo, e non concentrandosi unicamente all’età da gara. Da tale scienza e da tali prospettive, la visione educatrice e sportiva del karate non deve rifuggire. A volte si sente dire: quel grande maestro era un medico… per cui questo stile è meglio di quello il cui fondatore era, per esempio, un architetto. Non può essere vera in senso assoluto nemmeno quest’affermazione. Un medico di cent’anni fa, non è certo un’autorità indiscutibile, e la pia venerazione dovrebbe riguardare più l’insegnamento morale (ignorato pressoché totalmente) che la tecnica (e spesso si ignora pure quella). Si sente davvero poco spesso dire dai maestri: “il Maestro ha detto…” quanto piuttosto: “il Maestro la tale tecnica la eseguiva così… ho visto le foto. Ho la videocassetta”. La storia ha davvero la sua importanza, e non solo nel mondo marziale, per comprendere l’evoluzione. Non sarebbe più importante anche cercare di capire quale fosse l’insegnamento più ‘umano’ dei Maestri? Davvero l’insegnamento più profondo della tradizione si limita a riproporre tale e quale lo zenkutsudachi come si faceva più di cent’anni fa?
I cambiamenti (documentati) avvennero già in età non sospette dallo spauracchio dell’agonismo. Se ci fosse bisogno di prove, si pensi solo alle innumerevoli varianti di uno stesso kata (si è regolarizzata la grafia più nota ai praticanti italiani):
- di Bassai: Tomari-Bassai; Oyodomari no Bassai; Matsumura no Bassai; Itosu no Bassai; poi le varianti contemporanee, comprese lo sdoppiamento di Itosu confluito negli stili shorin che da lui dipendono, nello shotokan e nello shito in Bassai-sho e Bassai-dai.
- di Kushanku: Chatanyara no Kushanku; Sakugawa no Kushanku; Kuniyoshi no Kushanku; Chibana no Kushanku. Anche questo kata è stato sdoppiato da Itosu da cui è confluito nello shotokan e nello shito rispettivamente in Kanku-sho (Kosokun-sho) e Kanku-dai (Kosukun-dai)
- Chinto: Tomari-te Chinto; Kiyan no Chinto; Itosu no Chinto che è quello sviluppato (ovviamente con varianti anche di rilievo) nello Shotokan (Gankaku), nello Shito e nel Wado.
Come è facile arguire, per chi ha un po’ di pratica con i nomi dei maestri di Okinawa, le varianti sono indicate dai nomi dei rispettivi maestri che praticavano questi kata. Come a dire, enfatizzando ma non allontanandoci troppo dal vero se si osserva una cartina di Okinawa, un Bassai diverso quasi ogni isolato (tale la distanza che separa i villaggi di Naha, Shuri e Tomari*** verificare, si tratta davvero di un paio scarso di chilometri l’uno dall’altro), personalizzato da ogni maestro in funzione sua e/o della sua interpretazione (bunkai). I cambiamenti, dunque, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Certo, si obietta facilmente, un conto è cambiare un kata con una prospettiva ben definita e pratica (cambia il bunkai perché cambia l’approccio al combattimento) mentre cosa del tutto diversa è cambiare un gesto tecnico (spesso comunque incompreso) in un altro movimento altrettanto incomprensibile (o peggio: inattuabile [ma cfr. Otsuka che vuole andare ad Okinawa perché non comprende i movimenti dei kata di Funakoshi: poi studia pure con Mabuni e Motobu]) che però è più visibile nel contesto di una esecuzione sportiva. Obiezione legittima, ma forse poco meditata, cui si cercherà di dare una risposta nella prosecuzione del libro.
Direi quindi che il primo dogma da sfatare è l’immutabilità ad ogni costo della tecnica. Chissà per quale motivo, questa capacità intrinseca della tecnica di mutare e di evolversi, quasi di adattarsi ai cambiamenti socioculturali e morfologici dei praticanti di karate, è sembrata valida e al di fuori di ogni discussione per le tecniche del kumite, tant’è che oggi, volenti o nolenti, tutti gli stili hanno adottato lo stesso modello di combattimento (ossia quello della competizione, anche chi di gare solitamente non ne fa). La stessa cosa non si è verificata nel campo dei kata. Per molti l’evoluzione è una sorta di tabù per quanto riguarda le tecniche tradizionali. Forse questa omogeneizzazione dello stile nell’ambito del kumite ha ingenerato (credo involontariamente) questo aggrapparsi, a volte davvero fuori di luogo, alle posizioni del proprio stile e alla ‘tradizione’. Inizierei le mie riflessioni dalla parte cosiddetta destruens e vestirò contemporaneamente i panni dell’avvocato accusatore e difensore, perché questa è stata la parabola che mi ha condotto a interrogarmi su quesiti riguardanti anche l’antropologia del karate.
La prima domanda è la seguente: cos’è la tradizione che spesso invochiamo in nostro soccorso? Dubito che qualcuno possa credere di praticare il karate come lo praticavano Otsuka, o Funakoshi, o Mabuni o Miyagi o chiunque altro (queste persone dovrebbero allenarsi ben più di un paio di volte la settimana...).
E credo che nessuno lo vorrebbe poi fare veramente. Dunque, all’interno di ogni stile, l’evoluzione c’è stata (e non vedo perché dovrebbe interrompersi, ma questa non è un’argomentazione). La seconda domanda è invece questa, ed è un poco più imbarazzante: i maestri fondatori dell’ultima generazione (intendo almeno i quattro grandi appena citati) hanno trasmesso pedissequamente l’arte che avevano appreso dai rispettivi maestri? La risposta, come è noto, è negativa. È vero tutto il contrario: nessuno dei maestri fondatori dei quattro stili principali riconosciuti in Italia (e parlo delle personalità forse più in vista e meglio conosciute del karate mondiale) ha continuato verbum de verbo l’insegnamento dei propri maestri (a quei tempi non sospetti inoltre non era offensivo per nessuno aver più di un maestro, oggi invece pare che sia un peccato mortale, in ossequio al non rispetto della tradizione). Così non fu per Funakoshi (che passa più o meno giustamente per essere stato il più grande innovatore nonché padre del karate moderno, come del resto innovatore e genio forse ancor più grande di Funakoshi***citare i maestri con cui Funakoshi si allenava*: cito da pg. 27: “Intanto, io continuavo assiduamente col mio karate, allenandomi sotto diversi maestri: il maestro Kiuyna, che con le mani nude sapeva strappare la corteccia da un albero in un momento; il maestro Toonno di Naha, uno dei più conosciuti studiosi di Confucio dell’isola (int. di Okinawa); il maestro Niigaki, il cui grande buon senso mi impressionò profondamente; e il maestro Matsumura, uno dei più grandi karateka.” stesso fu per almeno uno dei due maestri più importanti della sua vita, (Anko Itosu) né tanto meno per Otsuka, che di Funakoshi fu uno dei migliori allievi (ma prima ancora di imparare il karate era stato designato come Gran Maestro e successore della scuola di Yoshin*** Ju-jutsu) e che venne a stretto contatto con lo Shitoryu di Mabuni e con il karate da combattimento di Motobu. Quindi è lecito affermare che questi quattro maestri hanno creato il karate moderno innovando una base sicuramente antica, o almeno mutando in funzione di specifiche esigenze (non ultime quelle di un combattimento sportivo, di cui Otsuka fu propugnatore). Hanno innovato, e sono stati indubbiamente dei grandi maestri. Non credo che qualcuno, sempre in ossequio alla tradizione, voglia mettere in dubbio questo fatto. Verrebbe quasi da dire che l’innovazione è nella natura stessa del karate. I maestri questo fatto l’avevano capito, e hanno sempre dichiarato che l’arte è costantemente in progress, essendo nata ad esclusivo vantaggio dell’uomo, anch’esso in continua evoluzione.