IL VOLO DELLE ANATRE
eventskarate 01 novembre 2009
Di Ferdinando Balzarro
Quando il maestro d’arco si rese conto che il suo allievo stava superandolo per
classe e bravura, terminata la quotidiana lezione, lo convocò al suo cospetto e
fissandolo negli occhi cominciò a parlare:
“Malgrado tu sia il più giovane dei miei discepoli, su tutti sei di gran lunga
il più abile e dotato… ma questo poco importerebbe. E’ fatto assolutamente
normale che all’interno di un gruppo omogeneo qualcuno eccella per straordinario
talento ed impegno. Quello che mi sorprende ma in fondo mi inorgoglisce è come
tu, in così breve tempo e con relativo sforzo, sia stato capace di superarmi.
Alla stregua di ogni uomo che calca la Terra anch’io, se pur portatore di
riconosciuta grande maestria, devo confrontarmi con limiti oltre i quali,
malgrado la buona volontà, non mi è dato procedere.
Per questo tu ora dovrai abbandonarmi ed andare alla ricerca del maestro capace
di insegnarti ciò che io non posso più darti.” Il ragazzo, sebbene afflitto da
molta tristezza, abbandonò il suo maestro e si incamminò verso il lontano paese
ove, correva voce, vivesse il più formidabile maestro d’arco di tutta la
regione. Trascorse parecchio tempo prima che egli potesse incontrarlo e quindi
seguire le sue lezioni ma , di lì a pochi anni, non senza meraviglia, anche
questo maestro s’accorse di essere regolarmente battuto dal singolare adepto. Fu
così che, per la seconda volta, all’allievo fu consigliato di proseguire la
ricerca del maestro in grado di insegnargli. Quando incontrò il terzo maestro il
giovane s’era fatto uomo, ovunque decidesse recarsi la sua fama lo precedeva ed
il suo nome divenne famoso anche oltre i confini dello stato. Strada facendo si
imbatté in molti valenti arcieri ansiosi di sfidarlo, ma nessuno fu mai capace
di batterlo. Egli infatti, con una precisione al limite del soprannaturale
riusciva a colpire il pieno centro di bersagli sempre più lontani, tanto lontani
che era difficile perfino distinguerne i contorni. Fu così che anche il terzo
maestro, dopo poche lezioni, risolse che nulla avrebbe più potuto rivelargli
riguardo l’antica arte del tiro perciò, ancora una volta, si affrettò a
congedarlo esortandolo a cercare il maestro all’altezza del suo innato valore.
“Ma ormai non so più dove andare.” Disse il giovane con un’ombra di disappunto
nella voce.
“Solo da un uomo puoi sperare di apprendere gli ultimi segreti del tiro
coll’arco… solo un uomo può ancora rivelarti cosa si celi dietro l’elegante
potenza del gesto che precede l’istante perfetto e sublime dello scocco… e’
ormai vecchio, ma sino ad oggi, nessuno ha potuto eguagliare la sua tecnica e la
sua precisione.”
“Ma dove posso trovarlo?” rispose l’allievo ormai preda di un certo sconforto.
“Nessuno conosce esattamente dove viva… qualcuno sostiene dimori ai piedi dei
freddi monti del nord, altri che abiti su quelli più temperati del sud… dovrai
cercarlo, e ancora cercarlo, sino a quando sorte e fortuna stabiliranno sia
maturo il tempo dell’incontro.”
Passarono molte stagioni, e molti freddi inverni ed estati roventi
accompagnarono i suoi passi verso l’ignota meta, sempre più fili argentati
iniziarono a luccicare tra i neri capelli. Durante i viaggi vinse infiniti
confronti al punto che cominciò a stancarsi di risultare sempre il più grande.
D’un tratto iniziò ad avvertire la vanità di ciò che era e di ciò che faceva,
perse ogni interesse per quelle gare dal risultato già scontato, e si rammaricò
di aver trascorso tutta la vita a inseguire la perfezione che evidentemente di
fatto già possedeva. Scagliava la sua freccia contro bersagli talmente distanti
da rendere pressoché impossibile prenderli di mira ma, grazie alla fermezza
formidabile del suo braccio e all’acutissima vista egli, sempre e comunque, ne
colpiva il centro. Dopo lungo peregrinare, quando oramai stava perdendo le
ultime residue speranze, per puro caso raggiunse la dimora dell’ultimo maestro.
Però le forze avevano cominciato ad abbandonarlo. Il polso faticava a reggere la
tensione della corda e la vista si era notevolmente affievolita. Tutto appariva
sfumato, confuso e tremolante. Ciò malgrado, la sua bravura era tale e l’istinto
del lancio così compenetrato nel suo spirito da consentirgli di non fallire il
colpo. Il maestro era molto vecchio, alto, magro, lo sguardo liquido perso nel
vuoto tipico del miope, tant’è che il campione subito si domandò come potesse,
quel fragile vegliardo semi cieco e dall’equilibrio incerto, distinguere
bersagli distanti anche solo pochi passi. Cominciarono gli allenamenti e, con
stupore, l’allievo notò che il vecchio non portava con sé né arco né frecce.
Giunti che furono sulla cima di una altura verdeggiante, il maestro impiegò
parecchio tempo a commentare il panorama che si poteva godere da quella
prospettiva: le fila ordinate di alberi dalle sottili cime reclinate come per
accennare un inchino di saluto, i ruscelli serpeggianti tra massi bianchissimi,
e il dolce ondeggiare dei prati accarezzati dal vento. Quindi lo invitò a
guardare in su ove, proprio quel preciso istante e a grandissima altezza, un
folto stormo d’anatre attraversava il cielo ormai infuso dalle pastose sfumature
infuocate del sole al tramonto.
“Ecco…” disse il maestro indicando con il dito scarno il placido e sincronizzato
passaggio dei volatili “Quello là è il nostro bersaglio di oggi.”
“Ma maestro” disse l’allievo stringendo gli occhi per tentare di mettere a fuoco
quel muto battere di ali “Non vede? Sono troppo alte perché le nostre frecce
possano raggiungerle e colpirle.” Il vecchio non rispose. Guardava lassù e per
un istante, che all’allievo parve eterno, continuò a scrutare il volo dello
stormo poi, con un leggero cenno del capo, chiese al suo allievo di passargli
l’arco così, senza il minimo sforzo, tese la corda e si concentrò sulla mira.
“Maestro mi perdoni” sussurrò l’allievo pieno d’imbarazzo. “Mi perdoni ma… non
ha incoccato la freccia…” Il maestro non rispondeva, continuava a distendere
l’arco regolando man mano il proprio respiro su quella costante trazione sino a
quando le sue fragili dita liberarono la corda la di cui vibrazione ricordò il
magico suono di un’arpa. E all’allievo, già a sua volta anziano ed espertissimo,
quel gesto apparve armonioso e perfetto, unico e irripetibile come non ne aveva
mai visti o addirittura immaginati, tanto è che d’istinto egli arrovesciò il
capo all’indietro e guardò là in alto, assolutamente convinto che quella freccia
inesistente e invisibile avrebbe comunque colpito il bersaglio.
Ma lassù, stagliate nel blu cobalto che assume il colore del cielo quando è
ormai prossimo l’inverno, le anatre, ala contro ala, piuma contro piuma,
proseguivano serene il loro quieto volo sino a quando, nel silenzio profondo del
crepuscolo, anche l’ultima di esse scomparve oltre i celesti confini
dell’estremo orizzonte.
Ho sentito il bisogno (utilizzando mie parole ma attentissimo a non mutarne
il senso) di proporre alla vostra lettura questa delicata leggenda orientale che
molto tempo fa qualcuno (di cui purtroppo non rammento né volto né nome) senza
un preciso motivo e senza attendere risposta, mi raccontò mentre, ancora avvolto
nello stupore di una dolce notte d’estate, attendevo sdraiato sulla sabbia
tiepida l’imminente sorgere dell’alba. Così, ripensandoci oggi, mi meraviglio di
essermi ritrovato là, immobile e silenzioso, completamente catturato da quelle
parole il cui suono a tratti sommesso a tratti drammatico, paradossalmente,
tendeva a distrarmi dai profondi significati in esse racchiuse; tant’è che nei
giorni successivi fui costretto a riproporre più volte alla mia mente il
cronologico concatenarsi dei fatti. La bella storia dell’allievo talentuoso che
consuma l’intera esistenza alla ricerca del maestro in grado di perfezionare la
sua insuperabile abilità nel tiro coll’arco per poi, ormai demotivato e stanco e
prossimo alla vecchiaia, assistere all’inaspettata incredibile lezione
rivelatrice dell’ultimo maestro, come di certo avrete notato, si presta a
diverse e affatto contraddittorie interpretazioni. Né vorrò su queste pagine,
onde evitare di influenzare il vostro ragionamento, sottoporvi la mia personale
chiave di lettura riguardo il messaggio celato tra le righe della parabola.
Chiave di lettura che, tra l’altro, è andata man mano modificandosi durante il
sempre più incalzante scorrere degli anni. Prima di chiudere, confortato dalla
speranza di ricevere vostri commenti, permettetemi di avanzare una sola
considerazione di fondo sulla quale, credo, potremmo trovarci tutti d’accordo:
“Ciò che da bellezza a un’idea è la sua irraggiungibilità. Gli Dei ridono quando
gli uomini pensano di aver ottenuto ciò che desiderano.”