I 17 minuti che fecero tremare la J.K.A.
ovvero: una cintura marrone agli Europei
eventskarate 1999
Intervista di Sergio Roedner al M° Rosario Capuana
Impaginazione&Grafica a cura di Davide Rizzo
Le immagini sono tratte dall'archivio di Sergio Roedner al quale vanno i nostri
ringraziamanti pe la concessione alla pubblicazione degli articoli e alla
rivista
Samurai
Bushido” diretta da Bertoletti Natascia
Il Maestro Rosario Capuana non ha bisogno di presentazioni per i lettori di Samurai. È stato uno dei più grandi agonisti della scuola del M° Shirai e l’allenatore della nazionale di kumite dopo l’effimera unificazione del karate italiano. In questa intervista rievoca quel periodo ricco, per lui e per tutti noi, di soddisfazioni e di amarezze.
Roedner - Vuol parlarci delle radici del Suo interesse per il karate?
Capuana - Mi porti indietro nel tempo, e la cosa mi fa anche piacere. Il mio incontro col karate è avvenuto in modo molto occasionale. Ero in una faseragazzi, si parla di 16-17 anni in cui avevo voglia di fare qualcosa di importante per controllare l’aggressività della mia infanzia, e la mia scelta, per dire la verità, era caduta su una palestra di boxe dove, quando vi misi piede per la prima volta, vidi un grande poster di un karateka. Più che un karateka era il poster di un uomo, un bell’uomo sicuramente, con la cintura nera e a torso nudo, e la cosa mi colpì e mi affascinò. Iniziai la mia avventura nella boxe con un’esperienza assolutamente negativa, perché forse non era quello che cercavo, non era la mia via. Però quel poster del karateka, tutte le volte che entravo in quella palestra di boxe, creava in me molta curiosità. Ebbi in seguito l’opportunità di parlare con la persona ritratta in quel poster, che in quella palestra di boxe teneva corsi di karate. Era Giampiero Parma, soggetto particolarissimo, curiosissimo, che ebbe il merito di stimolare la mia fantasia. Più tardi cercai una palestra dove potessi iniziare un corso di karate e saltò fuori il Bu-sen, una notissima palestra milanese, dove al momento c’era il culto del judo e dove vollero provare quell’esperienza nuova del karate e inserirono un corso al quale ebbi la possibilità di iscrivermi. Come insegnante c’era Angelo Abbruzzo, col quale veramente ho avuto un rapporto splendido e che, non so per quale motivo, dopo un anno abbandonò il Busen e gli subentrò Luciano Panciroli. Abbruzzo, molto onestamente, mi disse: “Rosario, io devo andare via. Tu puoi fare quello che vuoi, ma io ti consiglio di cercare una palestra. Se vuoi ti presento io al M° Shirai”. Lì per lì io non me la sentii perché ero sentimentalmente molto legato al Busen, ma quando mi sono accorto che Panciroli mi metteva lì a fargli da assistente, che era anche gratificante ma poco utile per il mio progresso tecnico, dovetti prendere coscienza che non era proprio più il caso di continuare. Quindi contattai Angelo Abbruzzo il quale mi portò in via Piacenza, incontrai il Maestro Shirai e lì praticamente iniziò la mia avventura nel karate.
Roedner - Ho sentito spesso ripetere che il tipo di allenamento che si faceva allora era molto più duro di oggi.
Capuana - Assolutamente sì! Erano degli allenamenti che praticamente portavano a una selezione naturale degli atleti. Quelli che riuscivano a superare una certa soglia di avversità, di problemi, di dolore, di fatica, passavano oltre; quelli che non ce la facevano rimanevano da questa parte. Erano allenamenti assolutamente duri, duri, duri, da un punto di vista non solo fisico ma anche psichico. Io devo dirti che il maestro Shirai ha avuto diverse annate dei suoi migliori atleti, diverse covate. In effetti lui, iniziando con questo tipo di selezione naturale, era in grado di confezionare delle macchine da combattimento. Questo era il suo fine e credo che alla fine ci fosse riuscito, e ci riusciva molto spesso con le varie generazioni di karateka che si sono succedute.
Roedner - Mi può parlare del Suo interesse per l’agonismo e della prima gara importante che disputò?
Capuana -
Il mio interesse per l’agonismo era un interesse naturale,
istintivo, fa parte del mio io. Probabilmente io avevo nel mio DNA questa
predisposizione all’agonismo, tant’è vero che l’ho sviluppata in tutti gli
sport. Giocavo a calcio da ragazzo e il mio allenatore diceva che giocavamo
sempre in dodici, perché io correvo per due. Quando ho fatto quell’esperienza
nella boxe, un giorno, dopo pochi mesi di allenamento, il nostro istruttore ci
portò in una palestra vera di boxe fuori Milano. Eravamo 3 o 4 ragazzini di
questa palestra e ci misero a confronto con dei pugili, non diciamo veri, ma
quasi. Io mi ricordo benissimo, ho un flash di quell’esperienza che è stata così
scioccante che dopo 45 anni non riesco ancora a scordarmela. Ognuno di noi
saliva e faceva tre minuti col caschetto. Arrivò il mio turno, suonò il gong e
io mi catapultai su quell’atleta che avevo di fronte e cominciai a riempirlo di
cazzotti. Non so che razza di cazzotti fossero, ma mi abbrancarono subito e mi
spiegarono che non era così che si faceva. Mi tranquillizzarono, suonò ancora il
gong e io rimasi lì tranquillo, cercando di impostare il match come mi avevano
detto di fare. Sentivo solamente dei grossi stung che mi arrivavano sulla
testa e non capii più niente finché non fecero suonare di nuovo il gong. Fu
veramente quest’esperienza che mi turbò parecchio e fece sì che abbandonassi
l’idea della boxe, perché, pensai, se faccio a modo mio ottengo dei risultati,
se faccio in modo tradizionale, classico, così come la disciplina ti impone,
evidentemente non sono tagliato per questo.
Con le gare di karate ho cominciato dopo un anno che mi allenavo
nella palestra del M° Shirai, Abbruzzo mi telefona a casa una sera e mi dice:
“Rosario, hai il passaporto?” Io gli rispondo di sì. “Allora guarda che c’è da
fare una competizione internazionale.” Io ero cintura marrone, figurati. Era
successo che la squadra nazionale, di cui io non sapevo neanche l’esistenza,
faceva il collegiale per il Campionato Europeo di Graz, e non so cos’è successo
tra Falsoni e Balzarro, uno deve aver rotto la mano all’altro. Tutti e due fuori
uso, quindi hanno dovuto chiamare due atleti in extremis, uno ero io e l’altro
era Ferrari. Ci chiamarono e andammo a Graz . Sul tatami il M° Shirai mi tolse
la cintura marrone e mi mise su la cintura nera. Il mio primo incontro lo
disputai con un inglese, Terry O’Neill. Io guardavo gli anziani, c’erano Parisi,
Ottaggio, e chiedevo: “Luciano, ma questo qui com’è?” “Vai tranquillo, è
abbordabilissimo”. Infatti (ma l’ho saputo solo dopo) era il campione europeo in
carica. Al primo incontro gli sono entrato con un maegeri e alla fine ho vinto.
La squadra italiana ha vinto il titolo europeo e io sono arrivato terzo.
Roedner - Quali furono in seguito i Suoi successi più significativi?
Capuana -
Di successi ne ho avuti tanti, ma quelli che ricordo con più
soddisfazione sono sicuramente i campionati europei e mondiali a squadre,
soprattutto quelli di kata, perché io sono sempre stato un fighter: un incontro
di kumite lo interpretavo in modo abbastanza naturale, istintivo, mi trovavo
sempre a mio agio. Dovermi gestire in una esecuzione di forme, e soprattutto
doverlo fare con altri, mi creava delle grosse difficoltà. Quindi è sicuramente
un fatto che mi riempie di gratificazione, sapendo che io non ero portato al
kata, essere riuscito anche in questa disciplina a primeggiare e soprattutto
farlo nella forma a squadre, che è quella di massima difficoltà.
L’incontro più importante che ho disputato? È sempre quello, ne
ho uno solo fisso in testa e purtroppo non riuscirò mai adimenticarmelo. Io ho
perso tre finali di campionati europei con Haendel ma non mi ricordo
assolutamente nulla, non mi ha lasciato nessun segno. L’incontro che invece ha
lasciato dentro di me un solco molto profondo è stato ai Campionati mondiali di
Los Angeles del 1975, col campione del mondo in carica, Tanaka. C’erano due
atleti per nazione, Tanaka e Mori per il Giappone, io e De Michelis per
l’Italia, e insomma alla fine della prima giornata si qualificano i due
giapponesi, i due italiani, i due tedeschi, un americano e un brasiliano. Al
primo turno dei quarti a me toccò Tanaka mentre a De Michelis toccò Mori. Se
vuoi te lo racconto, anche se non so se ne parlo con piacere o con grosso
rammarico. In questo primo incontro finiscono i due minuti regolamentari e io
ero in vantaggio di un chui. Mi ricordo che ci sono voluti ben 17 minuti per
prendere una decisione. Gli arbitri si sono riuniti al centro del tatami e hanno
discusso per 17 minuti sul giudizio da dare al termine di quell’incontro. 17
minuti sono un’eternità, che cosa si saranno detti? Forse, anzi probabilmente,
hanno parlato del fatto che non era mai successo che un atleta occidentale
battesse un giapponese. Alla fine dei 17 minuti gli arbitri riprendono la loro
posizione e lo svedese Hedlund, l’arbitro centrale, fischia. 2 arbitri mi danno
la vittoria, 2 arbitri danno il pareggio. Era decisivo il parere di Hedlund e
lui ha dato il pareggio, quindi siamo andati alla ripetizione dell’incontro.
Però io ho un flash di quello che è successo: di fronte a noi c’era il palco su
cui erano seduti i grossi nomi del karate giapponese e formavano come un
grappolo d’uva, con Nakayama in cima. Dopo il primo incontro, che terminò in
pareggio, vennero giù dal primo palco tutti questi, saranno stati 7 o 8 maestri
giapponesi. Andarono lì da Tanaka, sai, col loro modo di parlare. Sicuramente
non erano contenti, gliene dicevano di cotte e di crude. E invece dietro di me
chi avevo? Lo ricordo con grande simpatia, avevo Naito che sicuramente a livello
di prestigio non valeva quanto loro. Abbiamo finito il secondo incontro
supplementare che terminò ancora in pareggio, allora dopo scende giù la seconda
fila di giapponesi dal palco, terminò il terzo incontro, scende la terza fila
dal palco, insomma praticamente ho avuto la soddisfazione di averli tirati giù
tutti. Io posso dire che l’incontro tutte le volte è finito in pareggio perché
gli arbitri hanno dato pari, però se è finito in pareggio è sicuramente perché
li avevo vinti tutti. Al settimo incontro ripetuto Tanaka si inventò un
mawashigeri con la gamba anteriore e in effetti quel settimo incontro lo vinse
regolarmente. Questa è la mia grossa soddisfazione, di aver fatto tremare la JKA.
Roedner - Come mai decise di insegnare a Sua volta? Ricorda come erano allora i corsi istruttori?
Capuana - Ah, è stata una casualità anche lì, non è che l’abbia deciso io. Ero cintura nera primo dan, magari di buone prospettive, e un giorno il maestro Shirai dice: “Rosario, tu vai a insegnare”. Io? Io non mi ritenevo all’altezza, non avevo mai fatto un corso istruttori, perché all’epoca non ne esistevano ancora. Il maestro Shirai mandava i suoi migliori allievi a insegnare. Comunque accettai di insegnare in questa palestra, il Club Hiroshi Shirai di Quarto Oggiaro. Il proprietario era Di Bari, col quale ho avuto un ottimo rapporto. Da quella palestra sono venuti fuori anche atleti di livello nazionale, con i quali abbiano anche vinto un titolo italiano. Di Bari aveva per me sempre delle grandi attenzioni, quasi mi coccolava. Io ero un ragazzino ma lui mi faceva partecipe dei suoi interessi. Ad esempio i miei avevano bisogno di una casa e lui riuscì a procurarmi quest’appartamento Ho cominciato lì a insegnare, i risultati mi sembravano buoni e quindi tenni questa palestra per parecchi anni, poi mi si presentò un giorno Borelli che aveva una palestra di culturismo. Mi propose di aprire un settore karate e quindi aprimmo questa nuova palestra in via Natale Battaglia, finchè il M° Shirai mi chiamò con lui a insegnare prima in via Bezzecca e poi in via Maffei. A quel punto ovviamente optai, diciamo così, per farlo in forma professionistica.
Roedner - Fuori dalla palestra incontravate il maestro Shirai?
Capuana - A titolo personale devo dire di sì. Non era una situazione consueta questa, ovviamente, perché lui era sempre molto schivo e non concedeva questi rapporti a nessuno del suo gruppo. Però c’era un gruppo di amicizie che si erano venute a creare, con Luciano Panciroli e con la Zoja che lui aveva cominciato a frequentare, quindi c’era la possibilità, una volta alla settimana, di solito al sabato sera, di frequentarci con queste ragazze. C’era anche Luciano Impallomeni e si facevano queste cene alle quali il maestro era sempre presente.
Roedner - All’epoca dell’unificazione con la FIK Lei cosa ne pensava? Ricordo che nell’assemblea federale che doveva decidere in materia Lei, con pochi altri, si astenne.
Capuana - Non ero assolutamente favorevole, perché non era un’unificazione quella… in quella famosa assemblea è chiaro che io avevo già maturato il mio pensiero, avevo capito che quello era solo un assorbimento della Fesika da parte della Fik e quindi, secondo me, non c’erano le condizioni di parità o quanto meno di integrazione in un nuovo ente perché si potesse fare l’unificazione. E quindi io, in modo polemico (perché sai che dovevamo poi sempre fare i conti col m° Shirai) mi astenni: il mio voto di astensione voleva già dire parecchio.
Roedner - Che impressioni conserva del periodo dell’unificazione e delle sua esperienza di allenatore della Nazionale?
Capuana -
Questa è una domanda che mi fa piacere che tu mi abbia rivolto.
Si verificò l’unificazione, ci furono vari stage, gare unificate, dalle quali
io mi autoesclusi per un certo periodo di tempo, per essere coerente con il mio
pensiero sulla situazione del karate in quel momento. Ti farò solo un esempio:
fatta l’unificazione, nel primo stage che ci fu a karate unificato c’era il
maestro Basile che iniziò la sua lezione, finché arrivò al paradosso di salire
su un tavolo con un microfono in mano e da lì spiegare che cosa bisognava fare.
Ma avendo un microfono in mano ed essendo su un tavolo, era ovvio che non
potesse muoversi, quindi dice: “Scusatemi se non riesco a dimostrare quello che
dico, però ve lo spiego, perché non posso farvi vedere in questa situazione.” È
chiaro che per noi della Fesika quello fu uno shock tremendo, noi abituati a
fare, a lavorare duro, a parlare poco e a lavorare tanto. Neanche mezz’ora
dopo che aveva iniziato la lezione il maestro Basile, io avevo preso e me ne ero
tornato a casa. Credo che mi avessero seguito anche Montanari e altri tre o
quattro di noi.
Finché poi un giorno, riflettendo su varie cose, sono arrivato al
punto di farmi una domanda: “Ma tu vuoi veramente fare qualcosa per il karate
italiano?” E a questa domanda io ho impiegato un po’ di tempo a rispondere, e
quando sono stato veramente maturo per rispondere, mi sono detto: “Allora che
cosa devi fare? Se vuoi combattere, devi combattere dall’interno, non puoi farlo
dall’esterno”. E allora decisi di riprendere a far parte della vita della
federazione.
A titolo personale io non ho mai avuto problemi di compatibilità
con altri atleti perché già il mio stile di combattimento era un po’
all’avanguardia, si avvicinava molto al loro. Da un punto di vista caratteriale
invece per noi di Milano avere a che fare con la mentalità dei “romani” (come
li chiamavamo allora) era già un po’ più difficile. Io mi ricorderò sempre il
primo raduno dopo che sono stato nominato allenatore delle nazionali unificate.
Mi arrivò un telegramma: “Dovete trovarvi il giorno tale alle ore tali al centro
tecnico di Coverciano”. Io mi presento all’ora stabilita, credo le dieci del
mattino. Alle dieci non arriva nessuno, alle dieci e un quarto ancora nessuno,
dieci e mezzo, undici meno un quarto, non arriva nessuno. Allora prendo in mano
un telefono, chiamo la federazione e chiedo: “Ma scusate, avete per caso mandato
i telegrammi?” “Sì, perché?” “Ma perché qui stranamente non c’è nessuno.” E
dall’altra parte mi risponde la voce di un certo Cecconi, col quale poi è nato
un rapporto abbastanza bello, “Ahò, Rosa’, nun te sta’ a preoccupa’, mo stanno a
arriva’!” A parte questi aspetti caratteriali, poi da un punto di vista umano
non ho avuto problemi. Li ho allenati praticamente tutti, compresi i fratelli
Guazzaroni, ma non c’è stato neanche il problema di amalgamare i due gruppi. Ho
visto più volte che anche tra di loro, per esempio tra Cavallai, Gianluca
Guazzaroni e Navone era nato uno splendido rapporto. Il problema delle diverse
estrazioni non esisteva più.
Roedner - Quando e perché ha smesso di praticare?
Capuana - Il mio rapporto con la nazionale, con la federazione e col karate è crollato, è venuto meno in quel famoso campionato europeo di Madrid, in cui purtroppo noi ci abbiamo fatto una bruttissima figura nei confronti del karate internazionale e delle altre nazioni europee. Il karate italiano si presentò con due federazioni, con due nazionali, e quello è stato veramente un momento molto amaro, molto brutto, che ho vissuto in prima persona. E lì successe di tutto a livello politico, mi riferirono che ci fu una telefonata di Pellicone a Delcourt, che furono stracciate intere pagine di uno statuto della federazione europea per evitare che la nazionale della Fikteda partecipasse invece di quella riconosciuta dal CONI, e quindi ratificarono il nuovo statuto al momento per fare questo golpe. Io ci rimasi malissimo, mi immedesimai nello spirito dei ragazzi: vedere questa delusione nei loro occhi e nei loro cuori dopo che avevano versato sangue e sudore per giorni di stage a prepararsi al campionato europeo, arrivare fin là per rimanere seduti in tribuna. E questo fu un colpo troppo grande per il mio carattere, che non poteva non lasciare un segno importante, ed è stato questo che ha motivato il mio abbandono del karate.
Roedner - Tra i compagni di allenamento chi ricorda con particolare simpatia?
Capuana -
Sicuramente Luciano Panciroli, col quale ho avuto un ottimo
rapporto che andava anche al di là del karate in quanto, in una dimostrazione di
judo e karate organizzata dal maestro Barioli a Borgomanero, conoscemmo due
ragazze, due judoka che erano lì anche loro a fare la dimostrazione, e una sera
abbiamo fatto il ratto delle Sabine. Una di queste ragazze è diventata mia
moglie, mentre lui non è riuscito a portare a termine il rapporto.
Tieni presente poi che all’epoca c’erano 4 persone che hanno
passato una parte della loro vita quotidianamente assieme. C’eravamo io,
Montanari, Fugazza, Tammaccaro e all’inizio anche Beghetto. C’era un legame
strettissimo tra di noi, perché quando fai allenamento alle 7 di mattina, poi
alle 10 di mattina, poi alle 12 e mezzo, poi alle 4 del pomeriggio e quindi hai
passato quasi tutta la giornata insieme, poi ciascuno prendeva la sua borsa e
andava nella sua palestra a insegnare, e questo succedeva tutti i giorni
dell’anno. Io queste persone le reputavo come fratelli, non potevo avere
un’immagine diversa della loro persona che quella di un rapporto molto stretto,
come quello che hai con un fratello.
Roedner - Tra i Suoi allievi chi ricorda con maggior stima e affetto?
Capuana - Ci sono atleti che mi hanno dato veramente tanto perché hanno mantenuto la continuità con quello che avevo impostato: partiamo da Luciano Conte, che è quello che porta avanti il mio karate e la mia palestra. Poi c’è Silvio Tschang, che è un altro di quelli che io chiamo i “caduti di Spagna”, di Madrid, vittime di quella famosa situazione. Anche lui ne è uscito sconvolto e da allora non ha più voluto sentir parlare di karate. Tschang era un atleta che avrebbe potuto veramente dare molto.. Posso dirti che anche nella nazionale c’erano degli atleti con cui ho avuto uno splendido rapporto. Su di loro potevo contare in ogni situazione e sapevo che non mi avrebbero tradito: penso a Gianluca Guazzaroni e Maurizio Cavallari. L’unico campionato europeo juniores che abbiamo vinto l’abbiamo vinto con loro, a Roma.
Roedner - Lei era noto come un maestro geloso ed esigente, capace di mandar via gli allievi se mancavano a qualche lezione di troppo.
Capuana - Sul fatto della gelosia non credo …forse si trattava di un fatto inconscio. Sul fatto delle presenze sì, questa è una cosa in cui credo molto. Io mi ricordo sempre i primi tempi quando ho cominciato a far karate, facevo un lavoro che mi portava in giro per l’Italia. Facevo delle consegne per mio padre col camion. Mi ricordo che andavo via il lunedì e mi portavo la borsa sul camion, perché sapevo che sarei arrivato magari la sera di mercoledì, che era la sera dell’allenamento, e tante volte parcheggiavo il camion proprio davanti alla palestra perché non avevo il tempo di andare a casa. Quindi questo vuol dire essere attaccati e avere la volontà per raggiungere degli obiettivi. Se non hai questa volontà e le cose le fai un po’ all’acqua di rose, ovviamente anche i risultati vengono meno. Io lo vedo anche nel tennis: se tu continui a giocare ti rendi conto che è una cosa della quale quasi non puoi fare a meno; appena ci sono delle circostanze in cui non giochi per due, tre settimane tu ti rendi conto che di quella cosa in fondo puoi anche fare a meno. Ed è questo che io cercavo di evitare: di non mettere mai il ragazzo nella condizione di capire che del karate poteva anche fare a meno!
Roedner - Secondo Lei qual è la ragione per cui il karate ha perso parte della sua presa sulle nuove generazioni?
Capuana - Secondo me, a parte il veicolo pubblicitario che comunque è sempre determinante, e a parte il fattore delle mode che è anche esso molto importante (oggi va di moda il body building perché il ragazzino deve far colpo sulla ragazza e quindi si deve far vedere bello fisicamente), io credo che il karate moderno non abbia più quell’ascendente, quel fascino che poteva avere quello di una volta, quando lo spirito, l’interpretazione del combattimento era percepibile anche dal pubblico, era più realistica, anche il pubblico cercava di partecipare al combattimento insieme con l’atleta.
Roedner - In che modo il karate L’ha aiutata nella vita di tutti i giorni? Sarebbe un uomo diverso se non l’avesse mai praticato?
Capuana - Non te lo so dire…sicuramente ha influito molto sulla mia formazione mentale e caratteriale. Ha accentuato certi aspetti di durezza del mio carattere che non sono mai riuscito a smussare. Da ragazzo avevo due grandi passioni, quella del pallone e quella di far parte delle bande di quartiere. Quando ho scoperto il karate mi sono reso conto che le due cose erano incompatibili e quindi mi si è posta questa scelta che non è stata facile, perché anche nel calcio ero già bravino e avevo una carriera davanti a me. Optare per il karate in cui ancora non ero nessuno è stata una scelta coraggiosa che ho fatto e che alla fine mi ha premiato.