I grandi maestri di Okinawa: Kentsu Yabu (1863-1937).

 

di Fabrizio Comparelli

 

 

È mia convinzione, triste ma inevitabile, il fatto che fra qualche anno sarà impossibile scrivere qualcosa sul karate okinawense praticato a cavaliere tra la fine del XIX (specificamente con l’inizio dell’epoca Meiji) e la prima metà del XX secolo. Questo perché chi aveva ancora ricordo di quel periodo ormai non c’è più, e spesso non ha lasciato alcuna testimonianza scritta di quanto vissuto, ma soprattutto perché lentamente ma inesorabilmente stanno sparendo anche gli allievi di questi maestri, i quali pur avendone ereditato la tradizione orale e tecnica hanno dovuto fare i conti con un karate che inevitabilmente non poteva continuare a mantenersi immutato. E così fra poco non si avranno che ricordi di terza o quarta generazione, per lo più probabilmente fievoli e imprecisi, e a noi rimarrà solo la possibilità di studiare dalle fonti più accreditate a nostra disposizione (il panorama italiano è tristemente scarso di pubblicazioni di questo tipo, ma per fortuna nel resto del mondo la situazione è ben diversa). Per questo è necessario compiere il massimo sforzo per mantenere vivo questo ricordo continuando a trarre esempio dalle figure che hanno fondato il karate e ne sono stati i pilastri. Se già abbiamo avuto modo di presentare le figure di Matsumura, di Itosu, di Azato, di Kyan, e giunto il momento di occuparci di un’altra figura rappresentativa del karate di Okinawa di area shorin, allievo di Matsumura e di Itosu: il sergente Yabu, com’era chiamato con ammirazione ad Okinawa.

            Come si diceva prima, fra poco sarà impossibile conoscere chi ancora ricorda i maestri della ‘vecchia scuola’, ma ancora qualcosa si può riuscire a trovare. Ed è così, quasi per caso, che uno studioso americano, Joseph R. Svinth, trovandosi ad indagare sul sumo e sul judo praticato nell’Atlantico nord-occidentale venne in contatto con Homer Yasui, dell’Oregon Nikkei Legacy Center il quale era sposato con la nipote di Kentsu Yabu. A questa notizia ovviamente lo spirito di ricerca di Svinth era stato risvegliato. Svinth quindi venne a contatto col nipote di Yabu, dalla quale trasse le seguenti informazioni (che qui riassumo integrandole con altri articoli apparsi su riviste inglesi e americane e sul web). Nato a Shuri, terzo figlio di Kenten Yabu e Morinagi Shun, Jentsu Yabu era di famiglia nobile, come molti dei suoi colleghi, specificamente un pechin, o membro della media aristocrazia, con un albero genealogico che risaliva almeno al 1689. Una famiglia acculturata dunque, sia nei classici cinesi sia nelle arti marziali, come nella norma. Il nonno paterno, Ken’yo, fu il maestro d’arco del nobile Ikegusuku, mentre il padre era calligrafo di corte. Fin da bambino Kentsu venne allenato in quello che poi diverrà lo shorin-ryu dal grande Bushi Matsumura, e fra gli allievi anziani di quest’ultimo vi era Itosu sensei, che poi diventerà il suo maestro. Incerta è la data di inizio dell’allenamento presso Matsumura e Itosu. L’unica cosa certa è che quando Yabu si presentò alla visita medica per essere arruolato durante la guerra cino-giapponese del 1894-95, fu tra i pochi okinawensi ad essere accettato. Se si riferisce a lui l’aneddoto che riporta Funakoshi nel suo Karate-Do Nymon (p. 26 della traduzione italiana curata dalle Edizioni Mediterranee): durante la guerra cino-giapponese, un giovane che si era allenato per mesi con Itosu prima di entrare nell’esercito fu assegnato alla divisione Kumamoto, dove l’ufficiale medico, notando il suo perfetto sviluppo muscolare, gli disse: “so che vieni da Okinawa. In che arte marziale di sei allenato?”. La recluta rispose che il lavoro di fattoria era sempre stata la sua unica occupazione, ma un amico che era con lui si lasciò scappare di bocca: “pratica il karate”. Il dottore mormorò semplicemente “Capisco, capisco”, ma ne rimase profondamente impressionato, si può ragionevolmente dedurre che una data possibile possa essere intorno al 1880, considerando proprio che Yabu iniziò il sua addestramento prima con Matsumura e solo poi con Itosu. Se si considera che alla fine del XIX secolo gli okinawensi erano generalmente esclusi dal servizio militare perché considerati inferiori, e inoltre Yabu si era sposato da poco e aveva un figlio piccolo, il gesto di Yabu deve essere stato simbolico: dimostrare ai Giapponesi che gli Okinawensi non erano affatto inferiori. Nell’esercito raggiunse il grado di Sergente e combatté in Manciuria. Pare che prima di congedarsi ottenne, primo fra gli okinawensi, il grado di tenente, e la leggenda vuole che la sua divisa e la sua spada venissero conservati nel castello di Shuri, ma per gli okinawensi rimase sempre il “sergente Yabu”, gunso Yabu, piuttosto che Chusa Yabu. Come è accaduto anche per i suoi illustri colleghi, anche Yabu non è stato esente da mitizzazioni. George Alexander gli attribuisce più di 60 combattimenti vittoriosi, Richard Kim descrive con esattezza una sfida con un altro grande quanto controverso karateka okinawense, Choki Motobu, combattimento che forse non c’è mai stato o che forse era di sumo okinawense, non di karate; tra l’altro un illustre allievo di Motobu, Shoshin Nagamine, sostiene che Motobu stesso aveva espresso il desiderio di tornare ad allenarsi con il suo maestro, per l’appunto Yabu, per approfondire alcuni kata. Un’altra storia riferisce che Yabu avrebbe ucciso un militare giapponese in uno scontro violento (gli okinawensi erano soggetti a frequenti episodi di ‘nonnismo’, e pare che Yabu non accettò di esserne vittima), contrastandone l’attacco con il palmo della mano: dopo il contatto l’uomo si accasciò a terra, morto. Durante l’inchiesta che ne seguì, Yabu si difese dicendo che non aveva utilizzato alcun colpo di karate, ma si era solo difeso col palmo della mano (cosa consentita dal regolamento militare giapponese) altrimenti le costole dello sfortunato avversario si sarebbero rotte. Per dimostrare quanto affermava, colpì col pugno chiuso un pino, e la forma del pugno rimase ben impressa; lo stesso episodio viene riadattato in un contesto meno violento, e l’incidente sarebbe dunque occorso durante un combattimento di sumo, ma la sostanza non cambia: le tecniche a mano aperta di Yabu dovevano essere fenomenali, leggendarie, tanto da fornire materiale ad aneddoti come questi. Vera o non vera che sia questa storia, dopo essere tornato ad Okinawa, Yabu iniziò ad insegnare nelle scuole di Shuri insieme ad Itosu. Il suo kata preferito era il Gojushiho, e non è forse un caso che la versione modificata da Matsumura del gojushiho cinese risente delle danze folckloristiche okinawensi ed enfatizzi i colpi a mano aperta. I suoi studenti più anziani ricordano che l’allenamento consistenza nella ripetizione incessante del kata Naihanchi, e Yabu pretendeva che gli allievi ripetessero 10000 kata ogni anno, numero che, seppur iperbolico o forse simbolico, fa una cifra di 28 kata al giorno, cosa peraltro non impossibile… a quei tempi. L’aneddoto è però rivelatore dell’impegno che Yabu richiedeva ai suoi studenti. Onorato dai suoi compatrioti, nel 1936 venne richiesta la sua presenza in un’assemblea di illustri maestri che dovevano deliberare sulla modificazione del kanji iniziale della parola karate, trasformandolo da quello indicante la Cina con quello indicante il “vuoto”. Nel 1921 si recò in California per visitare il suo primogenito Kenden, e una seconda visita fu effettuata nel 1927. La sua nipote più grande, Emi, che aveva all’epoca sette anni ricorda che al nonno piacevano molto i dolci, e sua madre si lamentava che Yabu indossasse sempre magliette dal collo troppo grande. Di ritorno da questa seconda visita, Yabu trascorse nove mesi alle Haway, dove diede pubbliche dimostrazioni di karate. Nel 1936 Yabu si recò a Tokio, probabilmente per motivi di salute (soffriva infatti di tubercolosi in stato avanzato, malattia che all’epoca non lasciava scampo nel 99% dei casi). Ebbe però il tempo di conoscere il giovane Shoshin Nagamine, col quale si lamentò del cambiamento avvenuto nei kata classici di Okinawa eseguiti in Giappone, e al quale lasciò una sorta di testamento spirituale: conservare le forme originali okinawensi. L’anno seguente Yabu morì.  Suo grande amico e compagno di allenamento fu un altro maestro che ha fatto la storia del karate, Hanashiro Chomo, la cui biografia apparirà nel prossimo numero di questa rivista.