L’efficacia delle tecniche nel Karate moderno
Di Alfredo Accattatis
il maestro De Luca e A. Accattatis
Pratico le arti marziali da circa 25 anni, di cui una buona ventina dedicati al Karate Wado- Ryu (con qualche “scappatella”).
Cosciente di essere ancora lontano dalla piena comprensione del significato profondo dell’arte marziale, posso affermare con certezza che arte marziale è cosa ben diversa che “fare a botte” e men che meno sola pratica sportiva..
Tuttavia, spesso ci si chiede: qual è la vera efficacia delle tecniche apprese nello stile praticato? In un caso reale, per difesa, quale sarebbe l’effettiva valenza delle
tecniche assimilate? Tecniche magari per anni applicate solo in palestra (od in gara) in un combattimento con regole (“ritualizzato”), e per di più con il controllo dei colpi. Ossia, in parole semplici, un pugno od un calcio ben sferrato sarebbero in grado di provocare un fuori combattimento ad un ipotetico avversario?
La mia “storia marziale” nasce con il Pugilato (quindi con uno sport puro e semplice), praticato in una vecchia e fredda palestra di provincia, per poi passare per una
breve parentesi di Judo e quindi consegnarsi definitivamente al fantastico mondo del Karate WadoRyu, insegnatomi con grande pazienza dal maestro Roberto De Luca. Al quale non smetterò mai di porre domande ed assillarlo con la mia costante presenza!
L’efficacia può essere (anche) intesa come capacità di mettere fuori combattimento l’avversario; ad esempio tirando un pugno od un calcio, o tramite una proiezione od una leva; eccetera. In tal senso, ha senza dubbio maggiore efficacia un combattente che si sia allenato a portare tutti i tipi di colpi senza controllo.
Per di più, il moderno Karate, così come molti stili di altre arti marziali, limita drasticamente il numero delle tecniche utilizzate.
Per garantire l’incolumità dell’avversario e talvolta in funzione dei regolamenti sportivi. Limitazioni che poi portano a praticare (tra l’altro) un tipo di combattimento adatto solo ai più giovani; le tecniche che un adulto potrebbe usare efficacemente per tenere a bada un avversario (magari più irruento e veloce) sono del tutto
bandite (!!). Il classico combattente di Karate ha dunque (apparentemente) delle grosse limitazioni. Egli per anni si è limitato a “mimare” il combattimento reale, tutto in funzione di quanto detto prima (regolamenti sportivi/lesioni all’avversario ed a se stesso).
Ossia, cosa importantissima, per poter continuare ad allenarsi nel tempo, senza subire dei danni che in breve lo porterebbero ad allontanarsi dalla pratica.. Ma questo modo di allenarsi porta inevitabilmente a sviluppare una tecnica che usa “schemi motori”, completamente differenti da quelli necessari per “affondare” veramente una tecnica.
Persino la contrazione delle fibre muscolari avviene in maniera diversa. Ed anche chi ogni tanto pratica con maggiore enfasi (privatamente in palestra e con amici
consenzienti - chi di noi non lo ha fatto -) raramente arriva ad una vera efficacia. Od almeno che rimanga nel tempo ed “interiorizzata”. A causa della sporadicità di
questo tipo di allenamento e talvolta anche della mancanza di nozioni sull’argomento.
Qualunque combattente infatti, pensa di sapere cosa significhi affondare un colpo, e di riuscire ad allenarsi efficacemente in tal senso (della serie “se voglio faccio sul serio”). Allenarsi all’efficacia dei colpi è cosa lunga e complessa, e deve essere praticata costantemente e con le giuste cognizioni.
Altrimenti in breve tempo ci si ritrova pieni di traumi e con ben poca voglia di continuare.
Senza considerare quei traumi che si manifestano lentamente nel tempo, sino ad arrivare ad esiti talvolta fatali. Ancora, l’efficacia dei colpi si impara anche
nell’incassare senza danni colpi potenti e tirati con maestria da persone esperte (un pugile professionista, ad esempio). Con un simile allenamento, sarà persino necessario cambiare le tecniche normalmente utilizzate (provate a tirare un gyaku-tsuki ad un pugile!), ed anche le strategie e le distanze di combattimento.
Nell’ambito di un combattimento privo di lotta corpo a corpo (chiamato “grappling”, vedi avanti), cambia per esempio in maniera radicale il senso della distanza (“maai”) sebbene ritmo e anticipo (“yomi” e “hyoshi”) restino similari. Come fare quindi ad apprendere l’efficacia intesa nel senso prima definito?
Dobbiamo abbandonare il Karate? Cosa dobbiamo praticare al suo posto? La risposta a mio avviso e NO, il Karate va benissimo ed anche di più, per i motivi che sto per esporre.
Ed anzi, probabilmente è l’unico modo di praticare che garantisce risultati duraturi ed una pratica “a vita”. Ma a mio avviso va opportunamente integrato. Ma vediamo prima cosa ci offre “il mercato” e cosa dicono i detrattori. E cosa da essi possiamo imparare con umiltà.
Ossia con un po’ di spregiudicatezza nella contaminazione!
Premetto che nel resto dell’articolo non farò differenza tra arti marziali e sport, perché ciò che stiamo ricercando è, nei limiti di questo discorso, una semplice (e criticabile) capacità di mettere fuori combattimento un avversario tramite azioni fisiche. Che comunque è pure un aspetto delle arti marziali. Non stiamo dunque parlando di strumenti educativi e filosofici, ne di stili mitici o capacità esoteriche vantate da personaggi di dubbia attendibilità.
La ricerca dell’efficacia, nei limiti della definizione da noi adottata, ha dato origine a vere e proprie nuove discipline.
Dapprima, la classica alternativa era la ben nota Kickboxing, affiancata dal classico Pugilato. Ed ancora prima spadroneggiava il mitico Full-contact. Da notare la confusione sul termine “Full contact”; attualmente indica un attributo di una qualsiasi disciplina marziale, ossia caratterizzata da colpi senza controllo (il Karate potrebbe essere full contact, ossia a contatto pieno). Il termine full-contact indica anche una disciplina sportiva specifica, ossia appunto il “Fullcontact”.
Il Full-contact nasce in America come ipotetica fusione di Boxe e Karate, o più in generale come Boxe con aggiunta di tecniche di gambe. Probabilmente è una
diretta importazione del Bogu-kumitè okinawense da parte dei marinai americani ai tempi della seconda guerra mondiale.
La limitazione del Full contact è che non si può colpire al di sotto della cintura, determinando un combattimento molto differente da quello ottenuto consentendo colpi sotto la cintura. Il pregio di questa disciplina è una relativa efficacia delle tecniche di pugno e di gamba. La Kickboxing, di origine giapponese, aggiunge tecniche sotto la cintura, ossia i famosi e tremendamente efficaci low-kick .
La Kickboxing è efficace, nei limiti del combattimento a distanza, e regala al praticante pugni e calci molto validi oltre ad una forte capacità di assorbimento dei colpi
ed una funambolica mobilità. Ma la kick è fortemente limitata dal fatto di essere solo uno sport, quindi mai insegnata al di fuori di un ring, tranne rare eccezioni. Ma pur sempre un valido strumento didattico. Ringrazio a tal proposito il maestro Tommaso D’Adamo per aver tollerato nella sua palestra un karate-ka convinto. Altra alternativa, la più valida in assoluto del genere, è la famosissima Thaiboxe, della quale esiste anche una devastante e millenaria versione marziale (la Thai-Boran)
. Colpi potentissimi di calcio e di pugno, cui si affiancano rovinose ginocchiate, gomitate, low-kick e qualche proiezione. Senza considerare la particolarissima tecnica di esecuzione dei calci, molto differente da quella normalmente praticata nel Karate, e che meriterebbe un attento studio. Da notare comunque che il famoso Karate “kyokushinkai” deriva direttamente dalla Thai-boxe, sebbene limiti l’uso di alcune delle sue armi più efficaci, come le ginocchiate e le gomitate.
Questa dunque una rapida ed incompleta carrellata sulle alternative classiche “dure”. Ma ecco le sorprese. La ricerca dell’efficacia ha portato molti validi combattenti, tutti provenienti dalle più disparate discipline marziali e/o sportive, a fondare nuove discipline, tutte per lo più caratterizzate da essere un mix di tecniche
prese un po’ dovunque. Tipicamente tecniche di braccia dal pugilato/kickboxing con elementi di kung-fu wing-tsun, tecniche di gambe dalla kick/taekwondo/thai tecniche di lotta da judo/ju-jitsu. Il tutto ha portato ad un fiorire di diverse discipline con i nomi più variegati (street-fight, ultimate-fight, valetudo etc.) tutte caratterizzate da gare di una violenza e pericolosità senza pari, forse simile a quella che doveva esserci ai tempi degli antichi Gladiatori. Ma con alcuni importantissimi risultati. Per esempio è interessante la classificazione adottata sulle “distanze” di combattimento. Si identificano quattro “distanze” classiche: “kicking”, “boxing”, “trapping” e “grappling”. La distanza di kicking è la distanza cui normalmente ci si pone quando si combatte con i calci; la distanza boxing è quella classica del pugile. La distanza di trapping, meno nota, è quella cui si pone il combattente del noto stile di kung fu wing tsun (con la variante wing chun – per intenderci è il primo
stile praticato da Bruce Lee). La possiamo paragonare alla distanza di combattimento cui si pongono i pugili nel corpo a corpo quando “legano”. La distanza è cosi ridotta da non consentire una corretta esecuzione del pugno “classico”, e da origine ad un tipo di combattimento basato su corti e veloci movimenti guidati per lo più da sensazioni tattili invece che dalla vista. La quarta distanza (il grappling) è quella classica della lotta, tipica ad esempio del Judo o del Ju-jitsu. Queste nuove discipline “efficaci” vedono il combattimento come un continuo fluire tra queste quattro distanze (con l’uso di tecniche adeguate di volta in volta), al contrario di quelle classiche che si limitano a privilegiarne una o massimo due. Il risultato sorprendente è che nei combattimenti senza regole (…o meglio con pochissime regole)
normalmente praticati dagli adepti di queste discipline, si è osservata una netta prevalenza dei praticanti di Jujitsu brasiliano (una variante del Jujitsu sviluppata in Brasile) e affini. Ossia una predominanza quasi assoluta dei combattenti che provenivano da discipline di lotta corpo a corpo, cioè specialisti del “grappling”. E questo è anche logico; in un combattimento reale, da strada, è facile finire avvinghiati all’avversario, specialmente se questo è molto grosso (un avversario grosso tende ad afferrarne uno più piccolo e sfuggente). Da qui tutto un rifiorire di tecniche “anti-grappling” in molte discipline classiche. Per esempio nel “Wing-tsung”, che per sua natura privilegia la distanza ravvicinata, si è sentita l’esigenza di introdurre tecniche per contrastare l’irruenza dei “grappler”. E così via. Risultati positivi quindi, che si “propagano” in tutto il mondo marziale. In definitiva, queste nuove discipline, al limite tra lo sport e l’arte marziale, hanno portato due tipi di risultati; teorici, e di tipo pratico, mettendo in evidenza come antiche discipline, oramai quasi del tutto trascurate, fossero decisamente le più efficaci e dunque recuperando un patrimonio che rischiava di essere perduto per sempre. Invero attualmente l’evoluzione di queste discipline “estreme” ha fatto si che la situazione si sia estremamente equilibrata; gli amanti dei “calci e pugni” hanno imparato a tenere a bada i “grappler” e viceversa. Sebbene resti oramai un fatto assodato che ogni combattente dovrebbe avere sempre un forte bagaglio da lottatore. E dunque che fine fa il Karate? E tutte le arti marziali classiche? Il controllo non serve a nulla? Ora siamo in grado di dare una risposta, che a mio avviso ogni praticante di “vecchia data” ha intimamente compreso (io mi limito semplicemente a scrivere quello che tutti hanno capito da tempo). Senza dubbio praticare solo con controllo, ed in prospettiva esclusivamente agonistica è un grave errore. Va bene per i giovani, per lo sviluppo del carattere e per una pratica non nociva per la salute. Ma non nell’ottica dell’efficacia. Praticare con controllo va in realtà bene per tutti, e la cosa sorprendente è che è esattamente ciò che avviene anche in altri tipi di palestre (per esempio di Kickboxing, e persino in palestre di Pugilato). La differenza sta nel “tempo” speso a controllare, e nel non limitare il numero di tecniche e la continuità dell’esecuzione. E nel saper assorbire efficacemente (ci si allena per avere un corpo più “duro” a livello muscolare ed osseo, esclusa ovviamente la testa). Per “tempo speso a controllare” intendo che l’allenamento deve mirare a sviluppare l’efficacia del colpo, come obbiettivo primario, e adottare il controllo solo per determinati colpi ed in determinati combattimenti. Importantissimo è impostare un tipo di combattimento che usi molte tecniche, anche molto raffinate e complesse, adatte a chi ha molta esperienza e meno energie da spendere (questo elemento è per esempio assente nella Kickboxing) . E, ribadisco ancora, imparare ad assorbire e parare colpi “veri”, che quindi devono essere portati dal nostro compagno di allenamento in maniera realistica durante lo “scambio di tecniche” a coppie. Nel combattimento poi, si deve anche comunque imparare a controllare, ma è importante saper scegliere tra controllo ed affondo con estrema naturalezza. Certamente non controllare mai porta ad una mirabolante efficacia, ma come detto a più riprese, provoca danni. E comunque richiede un impegno probabilmente non compatibile con chi nella vita fa altro per vivere. In più, cosa fondamentale, non consente di sviluppare determinate tecniche e strategie (nessuno proverebbe mai in combattimento tecniche e strategie che non gli riescono bene) e non consente di praticare a lungo, anche nella stessa sessione. Provate ad affrontare un combattimento “vero”, magari su un ring. Dopo pochissime riprese sarete pieni di acido lattico e piuttosto acciaccati, specialmente se non più giovanissimi. Potrete riprovarci solo dopo alcune sessioni di allenamento, e comunque per poco, e sempre meno entusiasti. Un allenamento controllato – ma non troppo – vi consentirà di provare ogni sera e migliorare drasticamente il vostro bagaglio tecnico, il senso del tempo, del ritmo e della distanza. E vi renderà sempre più capaci di controllare colpi portati con forza dall’avversario, rendendo il combattimento “spinto” sempre meno pericoloso. Nemmeno è cosa valida usare troppe protezioni; il rischio è tirare in maniera sbagliata, adattando le proprie tecniche alle protezioni. Il Karate Wado ryu è pieno di tecniche che richiamano la Kick, la Thai, e che comprendono efficacissime sequenze direttamente prelevate dal Jujitsu e che utilizzano proiezioni leve e/o strangolamenti (Otsuka, il fondatore, era maestro di Jujitsu). E persino ganci e montanti. Ossia il Karate Wado Ryu comprende tutte le distanze (kicking, boxing, trapping, grappling) e tecniche annesse, persino ginocchiate (presenti in molti Kata) e gomitate. Il WadoRyu è veramente completo (la mia è smaccatamente un’opinione di parte?) e probabilmente nato per la massima efficacia, prima ancora che semplice strumento educativo. Ma quante palestre insegnano il vero Karate Wado ryu? E quante palestre praticano tecniche in maniera efficace (per esempio almeno nello scambio a coppie)? Poche, pochissime, e talvolta in maniera del tutto sbagliata. E nemmeno è possibile imbarcarsi in una crociata contro gli sbagli del Karate, che rischia di vederci diventare vecchi senza arrivare a conclusione alcuna. Sta di fatto che non è infrequente osservare combattenti esperti perdersi contro avversari assolutamente impreparati ma che sono abituati a tirare duro ed assorbire bene. E che con molto poco verrebbero facilmente sconfitti! Personalmente penso che il vero Karate sia completo ed efficace. La mia soluzione è dunque affiancare allo studio del Karate (elemento base) anche lo studio di altre discipline (anche sportive), tra le quali vedo eccellenti la Kickboxing e la Boxe stessa, oltre a discipline di lotta. Ne forniscono valido esempio atleti del calibro di Chuck Norris. A supporto di questo, si osservi come il famoso Bogu-Kumitè, un tempo praticato ad Okinawa, non era altro che un Karate “efficace” praticato come complemento al normale allenamento dei Karate-ki. Con tanto di protezioni stile Kickboxing. Ed ancora, si osservi come moltissime discipline orientali comprendano lo studio di altre discipline come prerequisito per passare di livello. In ultimo un accenno al discorso Kata. Belli, ottimi da praticare in mancanza di partner, eccellente strumento educativo, anche per affinare il “ritmo” nel combattimento. E talvolta fanno la differenza tra un semplice sport e qualcosa di più. Ma vanno utilizzati per quello che sono: dei libri “dinamici” che insegnano fondamentalmente a combattere in maniera … efficace. E quindi non andrebbero mai praticati fini a se stessi e disgiunti dall’applicazione pratica. Né venduti come sufficienti ad imparare a combattere! Concludo, ben sapendo che a questo punto molti non saranno d’accordo con me. Sono un semplice amatore, che pratica per pura passione, ed oramai in “tarda età” mi ostino a frequentare palestre d’ogni tipo seguendo imperterrito la mia logica. Da anni sono assiduo frequentatore di una palestra di Kickboxing dove sto migliorando moltissimo … il mio Karate. Non scherzo; è duro ricominciare apparentemente daccapo e rimettersi in completa discussione. Ma è l’unico modo di progredire nello studio di un aspetto delle arti marziali, ossia il combattimento “efficace”. L’arte marziale, e quindi il Karate, è ovviamente molto di più, e molti si avvicinano ad esso con obiettivi che non contemplano (solo) il combattimento, o quantomeno non il combattimento “duro”. Per essi questo articolo è utile come semplice approfondimento o curiosità. Personalmente amo l’arte del combattimento puro e semplice, non troppo “sportivizzato”, e cerco di trovare gli strumenti per migliorarmi sempre di più, nei limiti delle mie capacità. E’ meraviglioso comprendere in una frazione di secondo le intenzioni dell’avversario e riuscire ad imporre la propria tecnica, o semplicemente vanificare la sua. Finire la sessione con il karate-gi completamente bagnato ed il cuore impazzito, ma con la sensazione di poter continuare ancora. E comprendere ogni volta che il combattimento è uno solo, ed i vari stili sono solo differenti aspetti della stessa cosa; come ogni religione è, in fondo, solo una maniera differente di descrivere lo stesso Dio…