LA CINTURA BIANCA E ROSSA

 

Di FERDINANDO BALZARRO                                                                                                marzo 01, 2008

 

“…è un modo per distinguermi… dai gradi inferiori…”. Questa, per sommi capi, la risposta ricevuta dal mio ex allievo quando, non senza un’ombra di deluso stupore, gli chiedevo ragione del fatto che si premurasse, nelle occasioni da egli stesso definite “ufficiali”, cingere ai propri fianchi, di over-cinquantenne, la fiammante cintura “bicolore”.
Per carità! Nulla da eccepire sul fatto, ormai acclarato, che in talune importanti federazioni, una volta insigniti del prestigioso grado di sesto Dan, si sia autorizzati (peraltro senza alcuna attendibile motivazione storica)* ad indossare sopra il candido e ben stirato karategi la vistosa fascia di spesso cotone pressato.
In fondo, quella di potersi e volersi “distinguere” dai gradi bassi variando il colore della cintura, è da tempo prassi utilizzata e condivisa da tutte le scuole di arti marziali operanti in occidente. La “cintura nera”, soprattutto, universalmente segna una principale linea di demarcazione tra la lunga fase del “principiante” e quella, ben più lunga, di “esperto” Karateka.
Un vero e proprio mito la “cintura nera”. Infatti non dimenticheremo quanto sia tuttora presente nell’immaginario collettivo la certezza che, chiunque se ne fregi, possa legittimamente meritare la fama di invincibile combattente. Certo, certo! L’esigenza di sottolineare con concreta evidenza le “differenze”, è presente, in forma più o meno eclatante, in altre numerose realtà socio-culturali: penso ai ministri di tutte le religioni, ai militari di tutti gli eserciti. Persino all’interno di certe congreghe o conventicole o sette segrete, non mancano precisi segni di distinzione che impongono rigorose distanze tra i fedeli adepti e la carismatica figura del Gran Maestro. Segni, appunto.

Sin dalle sue lontane origini l’uomo ha avuto bisogno di chiari Segni per riconoscere dogmi religiosi o gerarchie militari o gradino di casta, relativi alla Tribù di appartenenza.
E di Segni e Simboli e Riti, evidentemente abbiamo ancor oggi necessità se vogliamo superare, con serena disinvoltura, le minuterie del vivere quotidiano. Vabbé, non è poi così grave, anzi! Se, come qualcuno ha provocatoriamente asserito, Segni, Simboli, Riti e Liturgie, servono solo ad attribuire importanza alle cose che non ne hanno, possiamo perfino sorriderci sopra. Con alcune eccezioni però. Una su tutte: l’Arte.

Quando si parla di “Arte”, quando con rispettosa soggezione ci muoviamo tra le sue onde di luce, il segno, il simbolo, si fa autentico.

Lo scarto tra ciò che si è e ciò che si fa, come d’incanto, si annulla. Il problema del doversi distinguere perde di totale consistenza.

L’Arte non abbisogna di espedienti distintivi per elevarsi sul mondo. L’Arte non ha bisogno di preziosi abiti talari o sfolgoranti decorazioni o sfarzosi copricapo dorati. Non né ha bisogno poiché sarà proprio il mondo a consacrarla, sarà il mondo a stabilirne l’indiscussa supremazia.
A questo punto, pur consapevole di forzare il ragionamento, chiedo preventivamente che mi si perdoni il paragone. Il karate, inteso nella sua accezione di Arte Marziale.

Il Karate, considerato dal punto di vista del raggiungimento della Maestria, anch’esso, come qualunque altra espressione artistica, non può essere riconosciuto e banalizzato attraverso la convenzionale esibizione di segni e simboli. Sono altresì persuaso (e non penso di essere il solo) che, allo stato attuale, il “Dan” non corrisponda più al valore effettivo di chi ne è portatore (inteso dal punto di vista della maestria).

Nella maggioranza dei casi il conferimento del “Dan” superiore, si è ridotto a un oggettivo riconoscimento di meritoria anzianità, di encomiabile attiva e fedele militanza nella medesima organizzazione… e questo va bene! Purché lo si ammetta però. E purché, più o meno in buona fede, non si indugi nel comodo equivoco che basti una cintura variopinta a dimostrare quanto alto e irraggiungibile sia il tasso di classe e conoscenza di chi l’indossa. Ma adesso vorrei richiamare la vostra attenzione su quello che definirei un vero e proprio “Trionfo del Paradosso”. Come mio costume, anche in questo caso, mi assumo tutta la responsabilità di quanto mi accingo a dichiarare, convinto comunque che difficilmente potrò essere smentito. Ebbene, fateci caso, i maggiori fautori nonché effettivi portatori della citata cintura bicolore, risultano essere proprio quegli stessi maestri che, con le parole e con i fatti, hanno da tempo abiurato, nonché criticato e irriso, per non dire demonizzato, tutto ciò che nel Karate odora di tradizione. Sempre costoro, infatti, non fanno mistero di considerare quei “tapini”, ancora cocciutamente ostinati a preservarne i presunti valori, poco più di ammuffiti reperti archeologici o incorreggibili nostalgici di pratiche obsolete di fatto destinate all’estinzione. Perciò è possibile, che sempre questi maestri, con buona pace delle tradizioni, indossino (ostentino) con estrema e un po’ tronfia nonchalance, Karategi solcati da striature blu lungo le spalle, scarpe da ginnastica di ultima generazione, perfino importanti orologi stretti sul polso. Però, però, attenzione! Guarda caso, appena si parla di Dan, eccoli pronti, sempre loro, a rivalutare per l’occasione, i già vituperati riti del passato, cingendo attorno al punto vita (un po’ appesantito dagli anni) la fatidica cintura. Che dire?

Ma niente, niente! Le polemiche stanno a zero. La mia vuole solo limitarsi ad una normale osservazione, una semplice constatazione.

Certi fatti, definiamoli di “costume”, collegati al nostro variegato mondo, si commentano da sé. Ovvero, ognuno è libero di interpretarli nel modo che riterrà più opportuno nonché affine alla propria esperienza e alla propria sensibilità, anche se sono certo, non mancherà chi si sentirà toccato e offeso.

Pazienza! Per quanto mi concerne, quando mi accade di osservare i miei Maestri eseguire quei loro gesti arcani e sapienti, sono felice di veder ondeggiare lungo i loro fianchi, ancorché sbiadita dal tempo e dall’usura, la solita bella gloriosa mai esausta cintura nera.

*Le cinture sono sempre state bianche sino al raggiungimento della nera.

La prima cintura bianca e rossa fu quella donata da Jigoro Kano (judo) a Shura Saigo. Sempre nel Judo, Mikonosuke (Maestro operante in Francia), creò la classe degli Shihan (6/7 Dan) distinguendola con la cintura bianca e rossa.

Non tutte le scuole di Karate hanno imitato tale prassi. Nello stile Shotokan, in particolare, non sono noti casi di Maestri giapponesi che ne abbiano fatto uso.

Nota di (G.S.B).